Equilibrio e affetto. Un binomio difficile da soddisfare. Forse perché tutto parte dall’amare se stessi, una capacità che raramente viene insegnata ed un esercizio che pochi di noi hanno imparato a fare.

In questo illuminante saggio, Robin Norwood riesce a dissacrare un legame considerato spesso ineluttabile, quello fra amore e sofferenza. L’amore non fa soffrire e se invece si soffre vuol dire che dobbiamo dare a quel sentimento un altro nome. Riconoscerlo per ciò che è.
E spesso è dipendenza affettiva.

È straordinario comprendere come in realtà non ci sia nulla di casuale.

Non ci capita di essere delle dipendenti affettive, proprio perché scegliere di stare insieme ad un uomo violento e distruttivo non è un incidente di percorso, ma, appunto, una scelta. Inconsapevole, certo, ma una scelta.

Per alcune di noi, maschi così funzionano da calamita: ci sentiamo attratte solo da una tipologia di uomo che, alla fine, saprà distruggerci e annichilirci come donne e come esseri umani. E questo perché troviamo gli uomini normali noiosi e assai poco stimolanti. Così infatti l’autrice commenta uno dei casi da lei seguiti nel momento in cui ricorda il perché Peggy si fosse orientata verso la scelta di un uomo con determinate caratteristiche comportamentali: «Il bisogno di ritrovare l’ambiente ostile della sua infanzia e di continuare la lotta per conquistare l’amore di chi non sapeva amarla era tanto forte che appena incontrò un altro uomo, che l’aveva colpita per la freddezza, il distacco e l’indifferenza, si sentì subito attratta da lui» (p. 109).

Leggendo queste pagine dense di esempi e di esperienze vissute, la prima cosa che ci scuote profondamente è la consapevolezza che alcune donne si trovino quotidianamente a dover fare i conti con quella che a noi sembra tutt’altro che una condizione scontata: “come posso sentirmi attratta da un uomo violento?”

Se ci risulta difficile capire come sentirci attratte da uomini così ancora prima di capire che siano uomini così, pensiamo all’effetto che il cibo fa su di noi. Un hamburger in un fast food può per alcune essere più invitante di un piatto di insalata.

Possiamo capire benissimo quale differenza ci sia fra ciò che ci fa bene e ciò che ci fa stare male.

Questa preferenza per una specifica tipologia di uomo, che normalmente soffre a sua volta di dipendenza (il più delle volte da droga e da alcool), sembra però essere strettamente collegata all’ambiente familiare in cui si è cresciuti, dove ogni familiare ha giocato un ruolo preciso, dove ogni relazione si incastrava perfettamente con l’altra, dove la violenza, l’indifferenza, la dipendenza diventavano la motivazione principale per cui bisognava guadagnarsi in ogni momento l’amore dei genitori. Una tensione costante, difficile e dolorosa.

E così, crescendo, l’imperativo categorico è diventato proprio questo: per farmi amare devo essere in un certo modo, mi devo impegnare. Solo così salverò il mio uomo e solo così potrò essere ricambiata.

Le relazioni che si fondano sulla dipendenza affettiva in realtà dimostreranno proprio che questo continuo e devastante sforzo non darà mai i risultati sperati. Mentre ci annientiamo come persone e come donne, l’altro, quello che cerchiamo di tenere ancorato a noi, si allontana.

Riuscite a pensare agli effetti di una dipendenza da droga, da alcool o dal gioco? Beh non c’è alcuna differenza, sebbene si stia parlando in questo caso di una dipendenza più mascherata e ambigua. Gli effetti sono gli stessi. Fino a che non si prende coscienza che siamo dipendenti non  possiamo guarire.

Credo che quasi ogni donna abbia vissuto un rapporto di questo tipo. Una relazione in cui ci si sforzava di essere quello che non si è per farsi amare, con il risultato che alla fine non sapevamo più cosa eravamo e non riuscivamo a tornare quelle di prima. Alcune di noi, con intenso lavoro e duro sforzo,  sono riuscite a trovare in loro stesse le risorse per porre fine a relazioni di questa fatta e per impedire che situazioni del genere potessero reiterarsi.

Altre non ce l’hanno fatta e continuano a ripetere questo balletto in cui l’incastro uomo donna è perfetto, ma distruttivo: «Ricordate che in una donna che ama troppo operano due fattori: -la corrispondenza perfetta, come quella della chiave nella sua serratura, tra i modelli di comportamento della sua famiglia e il tipo di comportamento dell’uomo; -la spinta a ricreare e a superare le situazioni dolorose del passato. Diamo un’occhiata ai primi passi esitanti di quel duetto che informa ciascun partner della presenza di qualcuno con cui danzerà molto bene, in un accordo perfetto, sentendosi a posto. Le storie seguenti illustrano con grande chiarezza lo scambio di informazioni quasi subliminali che ha luogo tra la donna che ama troppo e l’uomo che lei trova attraente, uno scambio che stabilisce istantaneamente quale sarà d’ora in poi lo scenario della loro relazione, del loro passo a due» (pp. 100-101).

Leggendo questo saggio ho potuto inquadrare meglio alcune storie della mia vita e capire che anche per me c’è stato il momento della dipendenza e poi la lunga e difficile disintossicazione. Un percorso semi-consapevole, nel mio caso. Ma, per tutte quelle donne che ancora non sanno dare un nome alla loro relazione malata e distruttiva, Donne che amano troppo è lo strumento che cercavano, il momento della consapevolezza e, se vogliono, dell’inizio della rinascita.

 

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